Venezia
si era vestita con una delle sue più belle magie: la nebbia.
Una
nebbiolina sottile, adatta all’inconsueta comparsa in un giorno d’estate.
Così
quella meravigliosa trina di umide perle ne addobbava ogni angolo, e di buon
mattino mi incamminai per calli e campielli, lieto che l’ora antelucana mi
mettesse nella meravigliosa condizione di godere tutto solo quel paesaggio di
fiaba.
Vagai a
lungo nei dintorni di campo Santa Margherita, uno dei più pittoreschi di questa
stupenda regina della laguna, dove avevo trovato un alloggio confortevole e
conveniente.
Era il
massimo che mi potessi augurare: una linda e spaziosa camera d’affitto, con tre
finestre su questo bellissimo campo.
La
somma mensile che una padrona di casa discreta ma premurosa mi chiedeva era
senz’altro alla mia portata, e in una città e una zona dove numerosissimi erano
gli studenti danarosi questo mi pareva un vero miracolo.
Dovevo,
inoltre, mettere nel conto delle cose positive anche il fatto che il mio
alloggio era situato a meno di cinque minuti dall’ente in cui prestavo servizio.
Avevo
vinto un concorso che mi obbligava a rimanere a Venezia per almeno cinque anni,
così a malincuore avevo lasciato il mio paese natale, quel presepio sulla
costiera che è Positano.
Non era
stata una decisione né facile né indolore, con l’unica consolazione che non
lasciavo affetti profondi, ma solo delle belle e per fortuna inossidabili
amicizie.
Contavo, infatti, di ritornare appena possibile vicino a quel Tirreno che per me
era padre madre e sposa al tempo stesso, e sarei stato felice di ritrovarvi i
tanti amici pronti a riprendere le fila del nostro cammino assieme.
Famiglia non ne ho mai avuta, se si esclude lo zio benestante che da Ercolano
aveva provveduto al mio mantenimento e a dirigere le meravigliose governanti che
avevano curato con perizia e dedizione la mia educazione, succedanee purtroppo
incapaci di colmare il vuoto di affetti della mia infanzia di orfano, ma
comunque valide maestre di vita, cui devo gran parte del mio carattere
estroverso ed allegro, nonostante tutto.
Poi
l’università a Napoli ed ora sospettavo che anche nella conquista del posto di
lavoro ci fosse lo zampino dello zio, ricco e potente.
Seduto
su una delle panchine del campo, mi meravigliavo di non vederne i confini: la
nebbia aveva cancellato alberi, case, negozi per trecentosessanta gradi, e mi sentivo immerso
in uno strano giardino, dove l’erba era stata rimpiazzata dai “masegni” in
pietra d’Istria, resi più scuri dall’umidità.
Nessun
passante veniva ancora ad interrompere le mie meditazioni, e mi sorpresi a
ripensare al crivello delle ultime settimane.
Mi
piaceva di tanto in tanto, affacciarmi ad una delle mie finestre e rimanere a
lungo ad osservare la vita del campo, i bimbi schiamazzanti nei loro giochi, le
massaie che senza fretta provvedevano alla spesa quotidiana nelle variopinte
bancarelle, le case bellissime dirimpetto alla mia, e spiare nelle finestre la
varia umanità che vi appariva, come tanti televisori sintonizzati su canali
diversi.
Avevo
scoperto che proprio di fronte alle mie finestre viveva una creatura angelica,
di cui potevo vedere solo il bellissimo volto, inquadrato nei legni scuri della
finestrina, che immaginavo alta dal pavimento, perché quel volto mi sembrava
come incorniciato in uno strano portaritratti.
La
distanza che si frapponeva tra noi era bastante a poterci guardare senza
indiscrezione, i tratti del volto erano ben disegnati, ma lo sguardo era troppo
lontano per farsi indovinare, per questo potevo stare ore ad ammirare la bella
sconosciuta senza darlo a vedere, senza che si accorgesse di essere osservata,
né io a mia volta provavo l’imbarazzo di essere scoperto.
In
breve quelle imprevedibili apparizioni erano diventate per me una piacevole
abitudine, un rito che si ripeteva molte volte durante la giornata, e di cui
stavo diventando così ingordo, che talvolta approfittavo della vicinanza del mio
ufficio, per sostituire le pause caffé con delle puntatine a casa, per ammirare
adorante la mia dea, che spesso mi faceva grazia della sua apparizione.
Ho
persino sospettato che si fosse accorta di me, che con civetteria si fosse messa
di impegno per assecondare questa mia innocente mania.
Più
passavano i giorni, più sentivo lo struggente desiderio di palesarmi a quella
creatura di sogno, ma mi tratteneva la paura di scoprire che non fosse libera,
che un marito e dei figli fossero un insormontabile ostacolo ai miei sogni.
In
effetti, la probabilità che una ragazza tanto bella fosse sola era a dir poco
inesistente, ma il non sapere, il non voler indagare era il lumicino di speranza
al quale mi aggrappavo quasi con angoscia.
Cercavo
di negarlo, ma ero sostanzialmente in preda ad una ubriacatura molto vicina
all’innamoramento.
Ovviamente mancava ancora l’elemento essenziale della conoscenza sulla persona,
la frequentazione che sola avrebbe potuto chiarirmi se avevo incontrato la donna
dei miei sogni o se più semplicemente mi fossi imbattuto in una bellissima
ragazza, tuttavia molto lontana dai miei ideali di compagna.
Vi
erano anche ostacoli banali ma corposi a soddisfare la mia voglia di conoscere
meglio la mia Dulcinea.
Non
sapevo come fare ad assumere informazioni in merito, la curiosità di un giovane
meridionale certamente non sarebbe apparsa gradita ai bottegai della zona, con i
quali non avevo stabilito alcuna confidenza.
Tranne
forse il giornalaio, anche lui originario del Sud, con il quale, vuoi per comune
provenienza, vuoi per quotidiana frequentazione avevo maggior dimestichezza.
Ma era
un chiacchierone, inaffidabile e forse anche un po’ maligno.
Potevo
affidare a lui le mie speranze, potevo interrogarlo senza scatenare morbose
curiosità che si sarebbero ritorte contro di me, che magari mi avrebbero
ostacolato nei miei tentativi di avvicinamento?
Così
trovai un arzigogolato stratagemma per carpire le informazioni che anelavo,
senza scatenare curiosità inopportune.
Un
sabato pomeriggio entrai nel negozio di giocattoli che stava proprio sotto le
finestre della mia bella.
“Buongiorno - dissi con il sorriso più accattivante di cui ero capace al
titolare - ho trovato qui davanti un fazzoletto finemente ricamato che deve
essere caduto dalle finestre sopra il vostro negozio; vorrei quindi restituirlo
alla proprietaria, è un fazzoletto chiaramente da donna, ma non so chi vi abiti…
“
“Sarà
senza dubbio della signorina Lazzarini. Può lasciarlo a me, glielo consegnerò
appena chiudo il negozio”
Avevo
previsto anche questo, quando mi spinge il desiderio di ottenere qualcosa, so
essere furbo più di una volpe.
“Mi
spiace, non lo ho con me, è a casa e stasera non rientro, vorrei comunque farlo
avere al più presto a questa signorina Lazzaroni.. Può indicarmi l’ingresso
della sua abitazione?”
“E’ la
seconda porta a destra nella calle qui accanto. E si chiama Lazzarini, non
Lazzaroni!”
Sono
proprio astuto! Avevo volutamente storpiato il nome, in modo che il negoziante,
tutto felice di potermi redarguire, non facesse troppo caso alla mia curiosità.
Ringraziai, ed uscii gongolante sia per l’informazione così facilmente ottenuta,
sia congratulandomi per la mia sagacia.
Andai
di corsa a comprare un fazzoletto ricamato e tornai a casa, mettendomi di
vedetta alla finestra.
Quando la ragazza fosse apparsa, sicuro di trovarla in casa, sarei andato a
riportarle il fazzoletto; avrebbe protestato che non le apparteneva, mi sarei
scusato ma avrei avuto modo di fare conoscenza, l’avrei potuta vedere da vicino,
le avrei parlato; poi forse da cosa nasce cosa, san Gennaro forse mi avrebbe
aiutato…
E mi
aiutò penso, facendo comparire quasi subito la mia fata.
Corsi
giù per le scale, anzi mi precipitai, rischiando anche di cadere e mi fiondai
svelto verso casa sua.
Trovare
il portone fu un gioco da ragazzi e la fortuna mi assistette ancora, il nome
troneggiava sul primo campanello: se fosse stata in casa con parenti, magari
questi avrebbero potuto avere un altro cognome e allora addio, la ricerca si
sarebbe fatta lunga.
Attesi
un bel po’ dopo aver suonato il campanello; infine dal citofono una voce
deliziosa mi chiedeva chi fossi.
“Mi
chiamo Esposito, Salvatore Esposito, sono suo dirimpettaio, abito di fronte a
lei dall’altra parte del campo. Ho trovato qualcosa che le appartiene e sono
venuto a riportargliela…”
Un
benedetto ronzio mi avvertì che la ragazza si fidava, potevo salire.
Snobbai
il comodo ascensore e salii le due rampe di scale che mi avrebbero portato al
primo piano con il cuore in gola non per lo sforzo (divoravo gli scalini tre
alla volta) ma per l’emozione.
Il
portoncino dell’appartamento era socchiuso: “E’ permesso?” chiesi entrando.
Attraversai un lungo corridoio, arredato con severi scaffali di legno scuro, di
foggia antica, pieni di libri di ogni genere e attraverso un arco senza porte
entrai in una seconda stanza, più larga e più moderna: ancora scaffali, fino al
soffitto, questa volta in cristallo e con una elegante struttura di tubi
d’acciaio satinato con delle cremagliere che permettevano di raggiungere, su una
comoda pedana motorizzata gli innumerevoli libri, stipati all’inverosimile, con
estrema facilità.
Di qui
si entrava in un’altra stanza, dove finalmente trovai l’oggetto dei miei sogni.
Era
ancora più bella vista da vicino; stava sotto la solita finestra, seduta su una
poltroncina, e sulle gambe aveva un bellissimo foulard di seta.
Poi i
miei occhi corsero dal suo angelico volto alla poltroncina ed ebbi un tuffo al
cuore: ai lati giganteggiavano due ruote gommate!
In quel
momento capii che se le fossi piaciuto, avrei rivisto la mia amata costiera solo
da turista.
_______________________________________________________________________________________________________