Osvaldo si era svegliato con una strana sensazione,
un disagio molto simile alla paura, di cui non riusciva a mettere a fuoco il
motivo.
O meglio, i dettagli del motivo, perché sentiva
benissimo che quel giorno sarebbe successo qualcosa di insolito, quasi
sicuramente qualcosa di grave, di pericoloso, e lui avrebbe dovuto fare in
modo di evitare che accadesse, o trovare come limitare i danni di questa
imminente sciagura.
Ma questo venerdì 22 febbraio 2002 gli sembrava un
venerdì come tutti gli altri, e aveva la certezza che il menù del Centro
sarebbe stato rigorosamente a base di pesce, come ogni venerdì; ad Osvaldo
il pesce piaceva, ma aveva il difetto di lasciare nell'aria un odore
persistente, dapprima accompagnandone la preparazione e la cottura, poi
mantenendone il ricordo per tutta la giornata, ammorbando il Centro con il
suo lezzo non proprio piacevole.
Senza dubbio le cose buone avevano sempre un
risvolto negativo, qualche aspetto che inevitabilmente ne ridimensionava la
piacevolezza.
Così Osvaldo riprese una sua considerazione
ricorrente, che le cose buone o facevano male o erano "peccato".
Anche adesso comunque il pungente odore che si
spandeva ovunque ricordava ad Osvaldo che tra poco gli sarebbe stata servita
una ricca colazione.
Era mezzodì, e tra un'ora, con puntualità elvetica,
gli avrebbero portato il pranzo in camera, come tutti i giorni.
Quanti ne aveva trascorsi al Centro, vivendo una
rassegnata tranquillità! Non ricordava più come era vita prima, fuori.
Erano tante oramai le cose che Osvaldo non
ricordava, o che rammentava con fatica.
Si arrabbiava di brutto quando non riusciva a
mettere a fuoco un avvenimento, un ricordo, e si avviliva sentendo di vivere
sensazioni che faticava sempre di più a trasformare in ricordi precisi e in
pensieri compiuti.
Ma considerava questa attività di recupero un
bellissimo passatempo, anche meglio della lettura, che continuava a
praticare con grande impegno, ma che gli affaticava non poco la vista.
Ricordare invece era diventato il suo hobby
preferito, una enigmistica ricerca che occupava sempre più il suo tempo.
E a proposito di tempo ora cominciava ricordare
perlomeno il motivo della sua angoscia, o meglio la peculiarità della data e
orario odierni che gli avevano messo addosso questa indefinita paura.
Tra poco, alle quattordici, cioè alle due
pomeridiane del 22 febbraio 2002, sarebbe successo qualcosa di grave, che
Osvaldo avrebbe forse potuto evitare se fosse riuscito a ricordare.
Ricordare! Per quanto impegno ci mettesse, doveva
rassegnarsi alla tragica realtà: il ricordo riaffiorava autonomamente ed
apparentemente in modo casuale, senza una regola; prima o poi.
Negli ultimi tempi purtroppo i "prima" erano
superati di gran lunga dai "poi".
Mentre cercava invano di ricomporre il puzzle e
capire finalmente l'origine della sua angoscia, arrivò l'ora di pranzo e le
due giovani inservienti del Centro in un baleno gli prepararono la tavola,
lo fecero alzare dalla poltrona vicino alla finestra su cui amava passare le
sue ore di "meditazione" e lo fecero accomodare al tavolo; la brunetta che
aveva l'aria di esser la più alta in grado gli chiese: "Oggi lesso o alla
griglia, professore?"
"Lesso naturalmente, perché immagino siano sgombri
quelli che servite oggi e sapete che quel pesce saporitissimo è tra i miei
preferiti."
Le ragazze disposero sui piatti sia la pietanza
scelta, sia una bella insalata mista e infine una sontuosa macedonia di
frutta; si accomiatarono augurando "buon appetito" e il professore cominciò
allegramente il suo pranzo.
"Professore, mi hanno chiamato così; ecco perché
quella strana combinazione di numeri nella data di oggi mi ha tanto colpito:
lavoravo con i numeri certamente; ecco, ci sono, insegnavo matematica:
matematica e fisica, un binomio interessante; sì, sono stato professore!"
Osvaldo riprese sorridendo il suo pasto, senza
aggredire il cibo, ma assaporando di gusto ogni boccone.
"Docente universitario, ecco, mi pare di vedermi in
cattedra, eppure mi facevo più sportivo, più atletico."
Quando anche l'ultimo pezzetto di frutta sparì dalla
coppetta di vetro in cui aveva navigato, Osvaldo chiamò per il caffè e per
far sbrattare in fretta, poiché gli avevano annunciato visite:
"I suoi ragazzi saranno qui a momenti, per
festeggiare"
"i ragazzi! - pensò - ma non ricordo di aver avuto
figli, anche se mi sarebbe piaciuto, tantissimo!"
Alle tredici e trenta irruppero nella stanza i suoi
"figli", una mezza dozzina di aitanti cinquantenni, alcuni accompagnati
dalle rispettive consorti.
Osvaldo non dovette sforzarsi ad indovinare, non
potevano essere suoi figli, erano più o meno tutti coetanei, troppi per
avere un padre in comune; i ragazzi erano una bella squadra, e fu facile
risolvere questo piccolo indovinello: erano i ragazzi della squadra di
basket che Osvaldo aveva portato a vincere il campionato inter facoltà sul
finire degli anni settanta.
Sì, ora si vedeva a sbraitare, a dar ordini, a
suggerire strategie, a portare all'entusiasmo i ragazzi con il suo stesso
entusiasmo; non era solo l'allenatore capace e volitivo, era per loro un
idolo, un mito che li avrebbe trascinati ovunque, ma soprattutto ad una
laurea prestigiosa.
Con lui anche i meno dotati avevano un'opportunità
in più: tanto in cattedra quanto con il fischietto da coach era un dio in
terra; le sue spiegazioni erano sempre chiare, esaurienti ed ogni squadra
che lui allenava era destinata alla vittoria.
Gli ex allievi gli fecero festa, tagliarono la torta
e mentre il "prof" spegneva ottantadue candeline gli cantarono "perché è un
bravo ragazzo"; ma avevano recepito l'invito dell'infermiera caposala di non
stancare il festeggiato, così se ne andarono presto, con gli occhi umidi di
nostalgia.
Rimasto solo il professore si accomodò sulla
poltrona preferita e ricominciò a riflettere sul presagio misterioso che gli
aveva turbato l'intera mattinata e cercò invano di imbastire un
ragionamento, di fare ipotesi sensate.
Poi, vuoi per lo sforzo mentale, vuoi per il pasto
inusitatamente più ricco del solito, cominciò a socchiudere gli occhi e
questo propiziò il ritorno di uno dei suoi ricordi più belli: sulla bianca
parete di fronte alla finestra gli sembrò di vedere quegli occhi furbi che
aveva tanto amato, e il sorriso luminoso che un giorno lo stregò; le
palpebre calarono pesantemente per l'ultimo irreversibile sonno, mentre
l'orologio del Centro scandiva lentamente i rintocchi delle due pomeridiane
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