Racconti: basket



Il primo ed ultimo libro della mia vita, almeno fino alla soglia dei trent’anni è stato Pinocchio. Una storia affascinante, che ho letto tutta d’un fiato, e così ho deciso che non avrei letto più nulla, perché nulla potesse scalfire la meraviglia, l’ammirazione, il fascino che per me aveva quella storia. E’ da allora che ho cominciato a sognare una mia fata dai capelli turchini, che potesse compensarmi della mamma che non ho mai conosciuto.

Veramente ho letto anche “i promessi sposi” ma non vale, non è stata una mia scelta autonoma, ma un obbligo scolastico: ed ho anche dovuto sforzarmi a farne barbosi, inutili riassunti. Il Manzoni è già una pizza, figuriamoci i miei poveri resoconti! E poi i testi scolastici non contano. Testi che ho cominciato a compulsare solo al liceo; nelle classi inferiori ho sempre fatto affidamento sulla mia eccellente memoria e soltanto alle superiori ho dovuto piegare il capo di fronte a maggiori difficoltà e studiacchiare un poco: per avere tutti i pomeriggi liberi, senza dover studiare, alle medie mi bastava prestare attenzione alle lezioni; poi al liceo ho cambiato metodo, ogni ora di lezione la dedicavo allo studio della materia dell’ora successiva.

Ma dovevo farlo sui libri, che per comodità smembravo in quinterni e successivamente in pagine; oltre al piacevole risultato di aver minor peso ed ingombro nello zainetto, questa lacerazione mi aiutava a risolvere il problema della prima ora: la mia scuola era una scuola “di carità” gestita da preti che chiedevano come contropartita che gli allievi cominciassero le giornate con la santa messa; così, celati tra le pagine del libretto da messa, i brandelli dei miei testi scolastici mi venivano in soccorso, consentendomi di continuare a non studiare a casa.

Cosa avevo da fare a casa per aver tanto in odio lo studio? Preparare con cura la mia vita, il mio futuro; mio padre, insegnante di ginnastica, gestiva nel tempo libero una palestra che nei giorni feriali apriva i battenti alle diciotto. Così tutti i giorni fino a quell’ora, a partire dalle quattordici, mi allenavo, mi preparavo con ossessionante puntiglio ad affrontare la vita a modo mio; e per realizzarmi avevo scelto la pallacanestro.

Una impresa quasi disperata guardando i miei centosettantacinque centimetri di altezza, anzi nel basket di bassezza!

Tuttavia confidavo nel fatto che questo gioco si avvale certamente della squadra, ma che in fondo tutto dipende dalle capacità ed abilità individuali; in definitiva quel che conta è metterne dentro una più degli avversari, di palla! A partire dai quattordici anni in ogni giorno della mia vita quattro ore erano dedicate all’allenamento. Al compimento del diciottesimo ero in grado di “metterla dentro” da qualsiasi posizione del campo; come un perfetto computer avevo memorizzato la forza da impiegare in ogni centimetro del “parquet” ed avevo la certezza, se lo volevo, di non sbagliare. Mai.

Ma non è prudente mostrare troppo le proprie capacità: gli avversari potrebbero avvantaggiarsene, o ricorrere a contromisure pericolose. Per questa considerazione con astuzia celavo un poco questa mia dote e volontariamente sbagliavo una percentuale programmata di tiri e ricorrevo ai “miracoli”, cioè ai tiri impossibili, dalle grandi distanze, solo in rari casi di assoluta necessità.

Da dilettante ritenevo congrua una percentuale di errore del cinquanta per cento; poi passato al professionismo, facevo centro due volte su tre; questa mia speciale abilità era anche suffragata da uno stile di gioco altrettanto fruttuoso: l’iniziale handicap della statura, compensato dalla capacità di realizzare un numero impressionante di punti comunque, si tramutò ben presto in un ulteriore vantaggio; in mezzo a tanti vatussi l’agilità e la sveltezza di movimenti, particolarmente inusitati in quella popolazione di giganti, mi dava ulteriori vantaggi; in poco tempo tra i professionisti venni notato dai talent scouts delle principali squadre e la mia carriera divenne fulminea, portandomi a giocare nel gotha della pallacanestro e questo finì per far lievitare la mia posizione economica, collocandomi ai primi posti dei ricchissimi fra gli sportivi.

Anche la mia fortuna ci mise lo zampino: soldi chiamano soldi e una serie azzeccata di investimenti fortunati ed altamente remunerativi moltiplicarono esponenzialmente il mio patrimonio, in modo tale che, non ancora trentenne, mi sarei potuto ritirare, straricco e famoso. Invece continuavo a giocare, non più per guadagno ma per puro divertimento e perché in fondo era solo quello che sapevo fare, alla perfezione.

Il prezzo di questa perfezione per alcuni versi sarebbe potuto sembrare altissimo: niente amici, solo una pletora di conoscenti, per lo più interessati, dai quali ero più impegnato a difendermi, e una vita sentimentale praticamente inesistente. Le ragazze non mi mancavano, perché a parte la prestanza fisica di un meccanismo atletico perfetto, non mi facevano difetto tratti somatici più che gradevoli; nella mia superba, narcisistica analisi osavo definirmi decisamente bello.

In particolare amavo ed ammiravo il mio volto, la immagine che spesso faceva bella mostra di se sui rotocalchi sportivi; un ovale perfetto, zigomi sporgenti ma in simmetrica simbiosi con tutto il volto, labbra carnose e sensuali, e gli occhi, leggermente a mandorla ma privi di quella espressione attonita che si osserva negli orientali in genere, concorrevano a darmi uno sguardo intenso e curioso.

Insomma, non è difficile immaginare che questo bagaglio di doti fisiche finisse per entusiasmare le bellissime ochette che frequentavo: che adoravano i miei tratti ed i miei muscoli (ma alcune mi avrebbero adorato anche se brutto, per via del portafogli) e alle quali ero ben disposto a dare anche altro; il che mi procurava la pace soddisfatta dei sensi: non mi era mai passato per la mente di impegolarmi in una romantica avventura sentimentale, figuriamoci poi come recalcitravo al pensiero del matrimonio; anche se mi mancava la possibilità di avere quel che mi faceva difetto per una completa felicità: un figlio.

Come avrei voluto avere un piccolo “me” da educare, istruire, coccolare; una mia replica in miniatura sulla quale riversare quell’amore di cui mi sentivo capace ma che non aveva ancora trovato modo di esplicarsi, di testare la propria valenza pratica, al di là del sogno che continuava a rimanere inespresso.

Ma un figlio non è uno scherzo, una di quelle avventure con una sciacquetta qualsiasi, una storia che potesse finire quando me ne fossi stancato. Un figlio è un impegno per la vita. E supponeva di trovargli prima di tutto una madre, cosa cui non mi sentivo pronto.

Ma quando meno ce lo aspettiamo, il caso bussa alla nostra porta e senza aspettare che lo invitiamo entra, si accomoda e ci afferra la vita. Stavolta il caso si chiamò Michela. Ma non bussò, si annunciò con un fragore di vetri rotti, quando il paraurti posteriore della mia Porche fracassò la fanaleria di una Mini Minor parcheggiata dietro a me.

Non ero mai stato un asso nell’arte del parcheggio, ma questa volta la mia distrazione aveva oltrepassato i limiti. Il danno provocato era rilevante, per cui vergai un biglietto da visita che posi sotto un tergicristalli della Mini con il seguente messaggio: “Mi scuso per il disturbo. Se il proprietario della vettura si farà vivo prima di mezzanotte, potrà trovarmi al bar qui di fronte: vesto in blu e leggo un giornale sportivo. Marco.”

Erano le ventitre e trenta quando entrai al “Sans Soucì” e ordinai un toast ed una birra mentre mi accomodavo per leggere il mio quotidiano preferito, che domani avrebbe osannato ancora il mio ennesimo successo, quello di stasera. Avevo giocato la finale di questo torneo “Città di Parigi” senza risparmiarmi, senza sbagliare i tiri per mascherare parte della mia bravura e così avevamo sbaragliato la più forte formazione europea di sempre. 

Senza dubbio i giornalisti sportivi avrebbero sguazzato in questa succulenta notizia, avrebbero sfoderato i loro migliori superlativi per descrivere la mia impresa, il miracolo di un cento per cento di successi dei miei ventotto tiri a canestro. Ma il foglio che stavo leggendo stanotte riportava, ancora ignaro del mio exploit, l’annuncio di un mio possibile ritiro, notizia del tutto infondata, perché non avevo mai rilasciato dichiarazioni in tal senso.

Solo illazioni, che però stranamente anticipavano una mia voglia inespressa: a ventotto anni avevo oramai tutto e avrei fatto bene a prepararmi un futuro diverso da quello che poteva ancora offrirmi il basket. Ma non ero così sicuro che fosse bene per me ritirarmi e vivere di rendita. L’impegno quotidiano all’allenamento, la mia maniacale adesione al mito del superuomo quale volevo rimanere, mi parevano indispensabile viatico per una giovinezza, se non eterna, almeno molto, molto lunga.

Così mentre mi dibattevo tra i miei dubbi mi si parò davanti Michela, una ragazza niente male che mi guardava con un cipiglio a metà tra l’arrabbiato ed il divertito.

“Dunque è proprio lei, il grande cestista Marco Stefani, l’autore di quella opera d’arte moderna che è diventata la mia vettura!”

“Si, buonasera signorina…?”

“Michela. Michela Altobelli Quaregni.”

“Piacere di conoscerla. Vuole accomodarsi ed accettare intanto le mie scuse per il disastro che le ho combinato?”

Michela scostò la sedia di fronte a me e si sedette, impettita e regale, quasi un giudice sul suo scanno, pronto a sentire le mie ragioni ma comunque votato alla sua missione di giustizia.

“Non ho alcuna difficoltà - cominciò – ad accettare le sue scuse; immagino non abbia volutamente disastrato la mia auto, una distrazione si può perdonare, e non penso si tirerà indietro nel firmarmi i moduli di constatazione amichevole del danno. Il suo bigliettino mi aveva annunciato già la sua correttezza e la sua cortesia…”

Subito mi mostrò la sua incredibile gentilezza, ma lo sguardo intenso dei suoi occhi etruschi lasciava trasparire una indubitabile disapprovazione per la mia scarsa abilità di pilota. Era bionda, alta e slanciata e quello che mi colpì fin dal primo momento fu il suo sorriso, solare, schietto.

“Si, le firmerò tutto quel che vuole; d’altro canto è il minimo che possa fare per farmi perdonare; anzi, pensavo anche ad un risarcimento supplementare, tipo invitarla a cena, se non lo ha già fatto, oppure ad uno spuntino di mezzanotte”

“Perché no? – mi rispose sorridendo – non ho ancora cenato, per assistere alla sua bella prestazione agonistica, e in questo locale fanno dei tramezzini deliziosi…”

“Veramente pensavo ad un localino un po’ più “in”, il Veronique che è qui a due passi…”

“No, va benissimo qui, il Veronique è esagerato, più adatto a coppie romantiche, già consolidate; non le pare di correre un po’ troppo al primo incontro?”

“Primo incontro? – e le restituii il sorriso – Allora vuol dire che posso sperare in una seconda opportunità?”

“Chi può dirlo? Dipende da cosa saprà mostrarmi di interessante riguardo la sua persona. Non è scontato che mi piacerà, né che io piacerò a lei.”

“Penso valga la pena di provare, e d’accordo per rimanere al “Sans Soucì; non è il locale a rendere interessante la conversazione…”  e continuammo fino alle ore piccole a discorrere animatamente, entrambi entusiasti di aver trovato buone orecchie cui affidare le nostre parole.

Michela era una ascoltatrice attenta e perfetta, non interrompeva quasi mai e mostrava un interesse inaudito per i miei racconti, che spaziavano in ambiti vari, da episodi autobiografici a idee politiche. Ma non si limitava ad ascoltare; quando era il suo turno, mostrava una eloquenza anche superiore alla mia. Si capiva che era abituata a parlare, anche in pubblico, a spiegare, a condurre per mano l’uditorio alle conclusioni che lei aveva ben chiare fin dal inizio e su cui si finiva per concordare con assoluta naturalezza. Una insegnante, ecco spiegata la facilità di linguaggio, insegnante di lingua italiana alla Sorbona.

Tanto per minare il luogo comune che vuole i professori di una famosa università attempati e barbosi. Insomma, nel giro di un paio d’ore e due o tre giri di birra, eravamo già come vecchi amici e la voglia di rivederci sembrò spontanea, inevitabile in entrambi. Concordammo per martedì della settimana entrante, ma lei non volle saperne del Veronique, troppo pretenzioso: “Mi fido di te, del tuo buon gusto e ti lascio scegliere il locale; mi farai una sorpresa. Sono certa che non mi deluderai.”

La accompagnai a casa, viveva a Belleville, la location dei Malossaine, la tribù inventata da Pennac, come gentilmente mi informò quando seppe della mia idiosincrasia per la lettura, ma lo fece senza spocchia, senza esibire né commentare. Nacque allora, credo, il germe di quella decisione che avrei preso qualche giorno più tardi, cioè di “istruirmi”, di cominciare a leggere seriamente: sarei andato al Beaubourg e avrei tentato di colmare le mie lacune; non avevo ovviamente nessuna speranza di acquisire la cultura di Michela, che anche con la mia scarsa esperienza sentivo smisurata. Non era una che “aveva studiato”, era una persona nata per il sapere. Tuttavia senza l’obiettivo di mettermi al passo, desideravo ottenere qualche strumento in più per avvicinarmi a lei.

Michela mi attraeva con un magnetismo straordinario: non era, o almeno non solo, attrazione fisica; sentivo che questa volta non si trattava di una delle solite avventure, una storia destinata a consumarsi nel giro di un paio di settimane; non ero nemmeno sicuro che potesse nascere una storia, lei mi pareva diversa dalle ragazze che da anni mi avevano ronzato intorno; e non era solo per la questione della cultura: c’era in lei qualcosa di speciale, e comunque qualcosa che mi incuriosiva al punto tale da abbracciare il proposito di non dedicarmi ad altro che non fosse la mia marcia di conquista; la volevo a tutti i costi, ma la desideravo in modo speciale, come non mi era mai capitato prima di allora.

Certo non mi nascondevo le difficoltà, mettevo nel conto anche la possibilità di fallire, l’ipotesi di non riuscire a piacerle, non nel modo che mi pareva di volere, di desiderare in maniera quasi ossessiva.

Forse per la prima volta mi stavo innamorando, forse era finalmente arrivato l’incontro con la mia fata dai capelli turchini, anche se era bionda. Così contavo le ore che mi dividevano dal momento di incontrarla di nuovo e come ho detto ben presto perfezionai il progetto di “acculturarmi”.

Feci una lunghissima telefonata al mio professore di italiano al liceo, con il quale, stante la reciproca simpatia nata ai tempi di scuola, si era instaurata una amicizia che prevedeva rare frequentazioni, ma sorretta da interminabili conversazioni telefoniche ed una intensa corrispondenza vie e-mail.

Era indubitabile che lo avevo adottato come padre vicario, rappresentava per me un modello ed una sicurezza: quando mi sentivo giù di corda, o qualche dubbio esistenziale mi attanagliava la mente, sapevo di poter contare sempre su di lui, prodigo di buoni consigli che mi diceva di darmi volentieri, non sentendosi più in grado di darmi cattivi esempi.

Su due piedi mi aiutò a compilare una lista di testi ed autori che spaziavano dall’antico al moderno e soprattutto nelle attualità abbondavano i nomi stranieri, molti dei quali per me erano perfettamente sconosciuti.

“Per cominciare credo basti – mi disse – aggiornami tra quindici giorni ed io completerò la lista che ti manderò via internet; ed aiutati anche con zio Google!”

Partì dunque il mio programma di “rieducazione” e per dedicarmici meglio, mi ritirai definitivamente dall’agonismo, senza esitazione e senza rimpianti. Da allora il Centre Pompidou fu la mia casa e la mia chiesa.

Non ero stato fino a quel momento un grande lettore, ma la capacità e la rapidità di apprendere dei giorni di scuola era rimasta; se a questa si aggiunge la tenacia con cui mi dedicavo al nuovo progetto, così come avevo educato il mio corpo, rapidamente riaccomodai lo spirito e nel giro di un solo mese sembravo un’altra persona.

La sospensione dell’attività fisica, assieme alle frequenti cene che allegramente consumavo con Michela mi arrotondarono e mi appesantirono; non potevo definirmi proprio grasso, ma un poco più rotondetto lo ero diventato, decisamente.

Avevo comunque fatto cenno a Michela del mio programma, non mi piaceva nasconderle nulla, e lei mi aiutava di buon grado, portando spesso la nostra conversazione nella direzione dei miei studi; interrogava, spiegava e mostrava nuovi indirizzi, nuovi percorsi.

La divertiva cimentarsi in quelle che chiamava “le mie ripetizioni non retribuite”.

Ben presto la mia ostinata costanza associata alla naturale intelligenza diedero buoni frutti e potevo tranquillamente sentirmi molto più vicino alla mia dolcissima maestra. Ritenni così fosse giunto il momento di forzare i tempi, e chiesi a Michela di sposarmi.

Fu allora che sentii crollarmi il mondo addosso; fu allora che per la prima volta in vita mia gustai l’amaro sapore della sconfitta. Certo Michela cercò le parole giuste, per non ferirmi con il suo rifiuto, opponendomi delle ragioni inconfutabili, la prima fra tutte la ricordo ancora parola per parola:”Secondo te perché sono arrivata quasi a trent’anni senza un legame? Ti sembro tanto brutta o antipatica da giustificare l’appellativo di “zitella”? Io sono sola per scelta, non per costrizione. Non voglio legami, non voglio approfondire amicizie per paura. Paura della fine. Della delusione. Meglio non cominciare nemmeno, per non soffrire. Così offro anche a te questa opportunità: la nostra storia non comincia qui, perciò non potrà finire.”

Poi continuò, ma oramai l’ascoltavo quasi in trance, stordito dalla improvvisa rivelazione, un colpo tanto forte che però non mancò di farmi considerare quanto avesse ragione, quanto la sua scelta fosse saggia e giudiziosa. Così quasi non mi accorsi di quanto aggiungeva, che solo più tardi sarebbe arrivato al mio cuore ed alla mia mente; per il momento le parole vennero registrate in una memoria che nemmeno sapevo di possedere, e che in seguito rilasciò il suo malefico messaggio.

“Apprezzo moltissimo quel che hai saputo fare per me; sei cambiato, radicalmente, e questo la dice lunga sulla qualità del tuo sentimento, che mi lusinga oltre modo. Ma proprio per rispetto a questo sentimento devo, voglio dirti tutta la verità, che ti meriti: io sono stata attratta dall’atleta che eri, ammiravo la tua bravura e mi piaceva la tua figura. Quello che sei diventato, così simile a me, non mi interessa; sono anni che convivo con me stessa, e non mi servono controfigure.”

 * * *

Spiaggia di casa mia; a lato della brandina, un bel po’ di romanzi, letteratura varia, come d’abitudine. Seduta accanto a me Francesca, una dolce ventenne che mi delizia con la sua ammirata dedizione.

“Dai, molla quei libri e vieni a fare un bagno! Possibile che tu non riesca ad essere un po’ più sportivo? Non cambi mai!”

Una cosa ho imparato a mie spese: non è opportuno cambiare mai, nemmeno per amore.

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